Come interagiamo con gli altri e col lavoro?

Come interagiamo con gli altri e col lavoro?

Durante gli anni ’80 ci furono alcuni casi di cambio generazionale in aziende sorte nei primi decenni del secolo, che fallirono. In altri casi, invece, osservavamo l’esistenza di piccole e medie imprese di successo, nelle quali però l’imprenditore-manager non sedava gli scontri fra i suoi collaboratori e, anzi, contribuiva a crearli.

Il gruppo di studio che si occupò di questi casi, apparentemente scollegati, cercava di individuare uno o più fattori comuni. Certamente, sia nei casi di cambio generazionale falliti sia in quelli di aziende di successo, i leader erano eccellenti sul piano delle competenze e, in una certa misura, abili nelle relazioni. Cos’altro poteva mancare?

All’epoca, era nostra convinzione che un dirigente, competente nel suo lavoro e abile nelle relazioni, fosse completo. Allora, dove dovevamo cercare?

Il gruppo di ricerca cominciò a insospettirsi quando scoprì che i leader-padri, che avrebbero dovuto favorire il cambio generazionale, nutrivano una scarsa considerazione per i loro figli. Li ritenevano incapaci e, soprattutto, diversi da loro.
In modo analogo, nelle aziende di successo, gli imprenditori si lamentavano continuamente dei propri collaboratori, incapaci di spiegarsi come mai dopo tanti anni di potere esemplare, non li imitassero e fossero così diversi da loro.

Un caso più di altri ci fece vedere la situazione con chiarezza. In una bella azienda di informatica, il capo era un tipo estroverso, molto pratico, che prendeva decisioni in modo analitico e organizzava il suo lavoro in modo strutturato. All’inizio della sua attività era stato un eccellente progettista, ma con la crescita dell’azienda dovette abbandonare le operatività per occuparsi della gestione e del marketing dell’impresa. Malgrado il suo brillante passato, nutriva una forte ostilità nei confronti del progettista di punta dell’azienda. In un primo momento pensammo che fosse semplicemente invidioso del fatto che qualcuno potesse superarlo nel lavoro creativo. Ma non era così.
Dopo un’attenta intervista, scoprimmo che non sopportava visceralmente la personalità del suo collaboratore, completamente diversa dalla sua. Il progettista era molto introverso, creativo e adottava un approccio organizzativo estremamente flessibile. Quando il capo parlava, il progettista sembrava avere la testa fra le nuvole; quando il capo faceva un sorriso, bisognava aprire le fauci del collaboratore per contraccambiare la gentilezza e, dulcis in fundo, non era mai puntuale agli appuntamenti! Nonostante quel progettista fosse un genio nel suo lavoro, etico e un uomo-impresa, l’imprenditore non riusciva a tollerarlo e voleva eliminarlo. Com’era possibile?

Il problema era chiaro: quel leader non sopportava la diversità del suo collaboratore!

Il fattore comune a tutti gli imprenditori di successo, che creavano piuttosto che sedare i conflitti, e ai vecchi leader che fallivano nel cambio generazionale, era una profonda idiosincrasia verso la diversità. Tutti erano egocentrici: amavano la loro personalità, erano narcisi e, in un certo senso, «razzisti» verso il diverso. Ritenevano che solo i collaboratori uguali o simili a loro potessero avere successo.

Il gruppo di ricerca operò delle controverifiche e scoprì che passaggi generazionali di successo avvenivano con figli molto diversi dai loro padri, i quali però non erano egocentrici e, soprattutto, erano aperti alla diversità e stimavano sinceramente i loro ragazzi. Allo stesso modo, nelle aziende di successo, dove i capi erano più tolleranti, gli scontri erano minori o inesistenti e, soprattutto, quando sorgevano venivano risolti prontamente dal leader.

Quindi proviamo a rispondere alle domande: «Siamo tutti uguali o esiste una notevole differenza? Come interagiamo con gli altri e col lavoro?»

Come mi relaziono?

Dipende da come siamo.

Se sono estroverso, chiarisco i miei pensieri esponendoli apertamente. Amo riunirmi con gli altri, svolgere molti compiti e trovo stimolanti le interruzioni. Se parlo in pubblico, improvviso spesso e do un contributo significativo alle riunioni.

Se sono introspettivo, rifletto a fondo prima di parlare. Non sento la necessità di incontrarmi spesso con gli altri, preferisco concentrarmi su pochi compiti alla volta e non gradisco le interruzioni improvvise. Se parlo in pubblico, mi preparo una scaletta e la rispetto; nelle riunioni sono molto silenzioso.

E voi, come vi relazionate?

Come mi informo?

Il modo in cui tratto le informazioni dipende se sono più pratico o creativo.

Se sono creativo, mi attraggono i problemi ambigui e non ben definiti. Sono orientato al futuro, ho la testa fra le nuvole e la routine mi annoia. Amo la complessità e ricerco approcci creativi; vedo il quadro globale, ma mi sfuggono i dettagli.

Se, invece, sono pratico, preferisco affrontare problemi ben definiti, vivo nel presente e ho i piedi ben piantati per terra. Amo la routine e ho bisogno di standard e procedure precise. Ricerco un metodo standard per risolvere i problemi e, pur vedendo bene i dettagli, mi può sfuggire il quadro d’insieme.

Voi come gestite le informazioni?

Come decido?

Dipende se sono analitico o basato su principi ferrei.

Se sono analitico, stabilisco criteri obiettivi per prendere decisioni e le misuro a fronte dei risultati. Sono aperto al cambiamento in base alla situazione e talvolta mi considerano cinico. Amo le analisi, la chiarezza e fisso obiettivi basati sui fatti, senza tener conto dei principi.

Se, invece, sono il secondo tipo, ho criteri personali e soggettivi per prendere decisioni e le misuro in base ai miei principi. Resisto al cambiamento se si oppone ai miei principi, e talvolta mi considerano troppo attaccato al mio punto di vista. Amo l’armonia basata su valori comuni e gli obiettivi emergono dai miei principi.

Voi come prendete decisioni?

Come mi organizzo?

Se sono una persona strutturata, amo la chiarezza, l’ordine e sono orientato all’azione. Sviluppo un piano e lo perseguo; sono attento alle scadenze e mi getto nella mischia anche senza informazioni sufficienti. Non sopporto l’ambiguità e metto l’accento sulle conclusioni e soluzioni, piuttosto che sulla diagnosi.

Invece, se sono flessibile, agli altri appaio disorganizzato, ma ho il mio ordine personale. Sono orientato più alle informazioni che all’azione, cambio i piani da un giorno all’altro e spesso non rispetto le scadenze. Tollero l’ambiguità e metto più enfasi sulla diagnosi che sulle soluzioni e conclusioni.

E voi, come vi organizzate?

—Angelo Cilli